
Per le strane coincidenze della vita negli ultimi giorni mi è capitato di incrociare opinioni su
questo tema - ma lo dico subito, non ho una risposta precisa e in verità non voglio neanche approfondire la questione: è oltre le mie capacità.
Rimanendo sul superficiale è molto facile e comprensibile che chi inizia a esprimersi nel campo artistico (in senso lato) inizi a parlare di quello che vede e conosce più da vicino - non da ultimo se stesso, l'argomento preferito di ogni adolescente o persona in giovane età.
L'esperienza, la conoscenza, lo studio di solito poi permettono di allargare gli orizzonti, di affrontare altri mondi. A volte però la mancanza di talento questi orizzonti li fa restringere, diventano fessure attraverso cui si vede poco, e quel poco sembra non avere molto senso - come un film di cui si siano salvati pochi fotogrammi sparsi.
L'altro ieri mi sono venuti a trovare per un attimo quei progetti di fumetti di cui parlo in
Fumetti senza fine; non so perché ho pensato ad alcuni dei ragazzi-tipo che abitano nel mio quartiere, mi sono chiesta come avrei potuto farli parlare in un'ipotetica scena di gruppo.
Da quel poco che sento quando li incrocio intuisco poca scolarizzazione, poca cultura, un linguaggio povero. Che tipo di ragazzi siano un poco lo dico
qui, nel post che ho dedicato a questo non-fumetto, ma è chiaro che la mia incapacità di immaginare di cosa possano parlare questi ragazzi (e non solo in strada, in pubblico, ma tra di loro, a casa, nei locali) deriva dal fatto che fanno parte di un mondo parallelo che non frequento e che non mi interessa frequentare.
Tante volte mi sono chiesta perché non sono diventata un'autrice seria di fumetti, perché non mi sono messa a raccontare "le mie cose"; alla fine mi sono risposta che era per diverse ragioni, ma una abbastanza importante è che chi sta tutto il giorno a casa (o quasi) non può avere molto da raccontare (senza parlare del talento, quella cosa che potrebbe far diventare interessante anche le mie passeggiate col cane).
Insomma, tornando ai miei "incroci" fortuiti: sto leggendo velocemente (come non mi capitava da tempo) un libro di carta comprato diversi mesi fa, "
Mappe e leggende" di
Michael Chabon (di cui consiglio "
Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay"); in questo libro si trovano brevi saggi su alcune letture di Chabon (libri e fumetti), riflessioni, divagazioni che hanno sempre come filo i libri, le letture, la vita personale.
In uno di questi scritti Chabon racconta i suoi esordi di scrittore, le difficoltà di scegliere di cosa parlare - anche se con la sensazione di urgenza di dover scrivere, e scrivere comunque; nel saggio "
Le mie brutte copie" racconta come è nato il suo primo libro (aveva 22/23 anni):
[...] E allora forse avrei trovato un modo, magicamente, per dire davvero qualcosa sull’estate, sull'idea dell'estate in America, qualcosa che i grandi poeti americani della stagione estiva come Ray Bradbury e Bruce Springsteen avrebbero capito. Forse, o forse no. Ma almeno avrei praticato la virtù cardinale che i professori mi avevano inculcato con tanto zelo: avrei scritto di ciò che conoscevo. No, avrei fatto di meglio. Avrei scritto di ciò che avevo conosciuto, un tempo, e che da allora, nella mia triste e dilettevole condizione di caduto, avevo imparato a considerare illusorio.[...]
Raccontare solo ciò che si conosce a lungo andare può diventare limitante e noioso, credo, è chiaro che tanti narratori studiano e approfondiscono ciò che può servire per i loro racconti - il resto è intuito, empatia, talento e abilità.
Anche
Chiara Prezzavento (da scrittrice di narrativa storica) ha detto la sua su "
scrivi ciò che conosci", ribaltando un po' "la prescrizione" (
qui l'articolo completo):
[...] dubito che chiunque abbia formulato la prescrizione avesse in mente proprio di relegare ogni singolo scrittore ai campi che conosce già.
Per quanto si scriva “Scrivi Ciò Che Conosci”, niente mi leverà dalla testa che si debba leggere all’altra maniera: Conosci Ciò Che Scrivi.
Fa’ i compiti. Studia. Documentati. Capisci quel che c’è in ballo. Prendi ragionevolmente sul serio quello di cui scrivi e i lettori che lo leggeranno.
Almeno quanto basta ai fini della storia. Conosci – e poi scrivi.[...]
Chiara Prezzavento prendeva spunto dall'articolo di
Davide Mana,
questo: si parla di un racconto che gli è stato commissionato e che deve essere inserito in un'antologia tematica, con la copertina già presente; Mana potrebbe ambientare il racconto ovunque...
...in un laboratorio biologico, in un museo paleontologico, in una scuola di perfezionamento in ostetricia.
Ma sulla copertina ci sono ruderi ed archeologi, e quindi mi serve un gancio archeologico al quale appendere la mia storia.
Un nucleo di informazioni con le quali spolverare la storia per dare plausibilità alla mia storia.
In cui ci saranno i ruderi, ma non parlerà di ruderi – se non quelli relativi alle vite che molto spesso vengono distrutte in ambito universitario.
E qui qualcuno potrebbe urlare allo scandalo.
Sto barando, sto lavorando per far credere ai miei ignari lettori che io sappia di cosa parlo quando parlo di testi ugaritici o di bambole Kachina della cultura pueblo.
Che ne è dunque della fondamentale Regola, scrivi ciò che conosci?
Non sto dunque scrivendo ciò che conosco?
Beh, sì.
È per questo che ora vado a sedermi sul divano, col libro di Fagan.
Per conoscere il necessario di cui scrivere – per quanto ciò di cui io scriverò davvero sia qualcosa di diverso, e che conosco, avendo passato molti molti anni nel mondo universitario. [...]
A volte, lo confesso, la mia fissazione per le storie di fantascienza rappresentava una scappatoia rispetto al dover prendere sul serio la realtà, al dovermi documentare, aprire bene gli occhi, "studiare"; poi magari nelle mie storielle la realtà ci entrava lo stesso, in altre forme, ma non mi sentivo obbligata a immaginare come parlano gli alieni proletari di Altair IV o cosa provano i pendolari del tunnel spaziale dietro la Luna (faccio per dire...).
La realtà spesso mi sembra opprimente in modo sottile: quante volte ho cercato di disegnare a memoria qualcosa che avevo visto - persone, luoghi - e mi sono sentita frustata e in colpa perché forse non avevo rispettato nei particolari le cose che avevo visto? Anche il ragazzo che ho disegnato in
Fumetti senza fine, ecco, io non l'ho mai visto: è una ricostruzione, un collage di certi ragazzi che mi sembra di ricordare vagamente (il giubbotto senza maniche era proprio così? e le scarpe?).